Una cucina a sei mani quella del Ristorante Nasturzio. Tutto frutto di un’amicizia nata tra i banchi dell’istituto alberghiero di Nembro e perdurata fino alla scommessa di aprire un locale alle porte di Bergamo con una cucina fusion che è e al contempo sfida il convenzionale cibo di montagna.
La location.
Ho una passione sfrenata per quei ristoranti dove a un certo punto il navigatore sventola bandiera bianca.
Quei luoghi dove ci si chiede quanti tornanti mancano, dove negozi, marciapiedi e aiuole si allargano lungo la strada diventando sempre più rari e distanti; quei luoghi che spingono a chiederti se prima di partire hai impostato correttamente la destinazione perché sembra di allontanarti sempre più anziché giungere realmente da qualche parte.
Poi, lo vedi: il cursore si ferma sulla bandierina rossa informandoti che, anche se non sembrava, alla fine la strada giusta era quella. Un qualcosa che poi è anche molto simile allo scorrere della vita, se si vuole cogliere il lato romantico del sentirsi persi.
Ma adesso non stiamo parlando di noumenici dubbi esistenziali, stiamo parlando di cibo, che rende il pendolo della noia certamente più interessante.
Il ristorante Nasturzio è arroccato alle porte di Bergamo, ad Albino, nell’ ex complesso carmelitano. Ha pareti perfettamente stuccate all’ingresso e sul retro l’antica struttura grezza strizza l’occhio alla possibilità di un futuro utilizzo. Nel languido azzurro della Valle Seriana, invece, i tre giovani chef compagni di scuola Cinzia Mismetti, Jonathan Signorelli, William Bertocchi bandiera bianca non la sventolano.
La proposta gastronomica del ristorante Nasturzio.
La sala del ristorante Nasturzio si distingue per i tratti minimal con arredi 2.0: mise en place essenziale sui tavoli in legno solido, pantone beige un po’ ovunque e l’ampia vetrata che lascia intravedere l’immenso paesaggio circostante. La terrazza esterna invece promette pranzi e cene estivi all’aria aperta. Di fatto si tratta di un locale giovane, fatto da giovani e per i giovani. Un’intuizione confermata nella proposta del menu.
Qui, con grande sollievo, non c’è la tradizione nell’innovazione che ormai sembra assumere sempre più l’accezione di ingiurioso epiteto, perché scarabocchiata un po’ ovunque. Si cerca piuttosto di venire a capo di quella dicotomia tra mare e montagna con l’aggiunta di tratti fusion.
Il mio pranzo inizia subito riferendosi al territorio orobico con “Uovo croccante, strachitunt alla zucca e liquirizia”, proseguendo con “Innesti iodati di Triglia, bouillabaisse, carote e zenzero”. Si torna poi subito in montagna con un comfort food godereccio e panciuto: “Gnocchi di patate ripieni di fontina e tartufo e chips di rapa rossa”, un piatto in carta già dal 2019 e cinque anni dopo pare non perdere il suo status di portata tra le più apprezzate.
Ma con la lente di chi (si) è abituato a osservare, c’è una voce nel menu che pur non trovandosi tra quelle elencate nella degustazione, coglie la mia attenzione. Decido così di provare la loro “Anguilla, mango e radicchio”. E subito si rivela il top player del pasto. Un piatto fatto di millimetriche giustapposizioni, non solo in termini di consistenza ma anche per l’accostamento caldo/freddo fatto con intelligenza. Ineccepibile, il pesce resta morbido malgrado la difficoltà di cottura presentata solitamente dall’anguilla.
Il diritto di esserci.
Il fascino provocatorio dei luoghi dove il navigatore si perde sta in questo. Si tratta di manifesti, scommesse, una dichiarazione di intenti. Quello che ogni locale coraggiosamente aperto lontano dal traffico e dalle location inflazionate invoca è il diritto di esserci, di affermarsi, di sostenere che quando qualcosa ne vale davvero la pena, allora è giusto perdersi un pochino per strada prima di arrivare.
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