Madre Terra: il respiro della Pachamama

Quando nasciamo siamo davvero fedeli alla nostra natura, se ne abbiamo la possibilità cerchiamo il contatto con l’erba verde gattonandovi sopra, formiamo naturalmente legami con altre specie di esseri viventi. Quando nasciamo, il rapporto col cibo è primordiale, l’ascolto del nostro corpo non subisce interferenze dalle imposizioni della società. Siamo autentici. Come un tutt’uno con Madre Terra.

Sorseggiavamo bevande alcoliche quando iniziammo a ripensare ai giorni trascorsi.

Eric, con la sua bionda chioma, era in piedi, in equilibrio sulla roccia di un altopiano, accarezzato da una brezza gentile. Sotto i nostri occhi, la Valle Sacra degli Incas si estendeva in tutta la sua maestosità: terrazze agricole si arrampicavano sui pendii delle montagne, corsi d’acqua cristallina brillavano al sole, e un silenzio carico di energia ci avvolgeva tutti.

Il respiro della Pachamama“. Sussurrò Eric ammaliato.

Significa “Madre Terra” o “Madre del Tempo e dello Spazio” nella lingua quechua, colei che trasforma i semi in frutti. In quell’istante pensai di aver sempre bramato un legame simbiotico, intriso di profonda gratitudine verso la natura, ma di essere nata nel lato sbagliato del pianeta.

Mi dissi: “forse non è troppo tardi“.

Cosa?” rispose Eric. Pensavo ad alta voce.

Non sembra anche a te che il vento porti con sé dei suoni, come dei canti…?”.

Magari preghiere” rispose lui senza scostare lo sguardo dal paesaggio.

Era il luogo a infondermi quelle sensazioni? Era forse il peso della sua storia a tessere suggestioni? O vi era davvero qualcosa di tangibile e incontestabile? Alla fine mi dissi che la verità era irrilevante.

Pedro.

Chicos!“. Pedro, la nostra guida, ci richiamò all’attenzione; disse qualcosa a proposito di un tempio abbandonato, così lo seguimmo.

Nato e cresciuto a Cusco, tra le montagne delle Ande, Pedro era in sintonia con ciò che lo circondava, tanto da sembrare parte dello sfondo anche quando si muoveva. Aveva due grandi occhi scuri, profondi, dal riflesso quasi dorato che pareva volessero catturare il bagliore delle montagne al tramonto.

Erano diventati familiari per noi, da giorni osservavamo ogni movimento del suo sguardo, che spesso indicava piante di quinoa, animali come condor e volpi. Quando una persona non parla molto, diventa naturale scrutarla con attenzione per rilevarne il linguaggio del corpo. Il suo viso ambra, segnato dal sole e dal vento di alta quota, era incorniciato da un sombrero di feltro con una falda larga a proteggerlo dai raggi.

Arrivammo al Qorikancha, conosciuto per essere un antico osservatorio.

Secondo una leggenda inca – disse Pedro – questa valle fu creata quando Inti, il dio del sole, inviò un raggio di luce per aprire un varco tra le montagne e dare vita alla terra più fertile. È qui che gli Inca trovarono la loro connessione con il cielo e la terra“.

Continuammo a camminare fino a quando un primitivo senso di sollievo pervase il mio corpo. Iniziai a sentire più chiaramente il gorgoglio dell’acqua riecheggiare tra le pareti di pietra.

Presa dall’emozione dissi: “Las aguas de manantes (cioè le acque di sorgente) sono il motivo per cui il terroir di questa regione è unico“.

Il motivo per cui il Salqa – aggiunse Eric – è così unico“.

Il Salqua.

Mi accovacciai e immersi le mani nell’acqua gelida. Immaginavo il viaggio di queste gocce: dalle viscere della terra fino alle coltivazioni e gli alambicchi di rame. Il Salqua è un distillato di succo di canna da zucchero giovane, spremuto a freddo.

Lo stavamo provando a Lima, mentre ricordavamo il nostro viaggio, seduti ad un tavolo del Lady Bee, il sedicesimo nella lista dei World’s 50 best bar.

Pedro mi spiegò che le canne fresche, ancora ricche di clorofilla, irrigate con aguas de manantes, hanno un sapore più erbaceo rispetto alla canna matura.

Il Salqua è frutto del blend di cinque varietà (Cristal, Morada, Blanca, Alianza, Chicama) e viene curato a 2800 metri sul livello del mare. Il risultato è unico in termini complessità, zuccheri e aromi. 47% di grado alcolico, un rum agricolo robusto e non diluito, progettato per preservarne fragranza e raffinatezza. Prodotto in un’unica partita (single batch), è un distillato straordinario, frutto dell’attento studio della natura da parte dei suoi abitanti.

Le mani di Pedro, segnate dal lavoro manuale, sorreggevano la bottiglia mentre io ne sfioravano l’etichetta verde e bianca. La grafica presentava tre animali fieri tra le montagne e le canne da zucchero.

“Il serpente deve essere il Corallino andino, il rapace la nostra aquila e il felino il Puma“.

Ci imbattemmo nel Salqua come in una rivelazione liquida, sorseggiandolo in un drink dal nome evocativo: Mishkina Tumbo Albahaca. La lingua degli Inca, così essenziale e poetica, offriva il primo assaggio: mishki, dolce o gustoso; tumbo, banana passion fruit, parente prossima del maracuyá; albahaca, il basilico, che aggiungeva alla miscela una familiarità inaspettata. Gli altri ingredienti sembravano un enigma decifrato solo dai sensi: il palillo, spezia andina dalla nota calda e pungente, il sacha culantro, pianta aromatica così intensa da ridurre il sapore del coriandolo a un’ombra timida.

Aggiungendo una parte citrica, il risultato era un cocktail sour, con venature erbacee e una dolcezza fruttata che emergeva a tratti, come il ricordo di un sapore perduto. La drink list stessa era un viaggio, non un semplice menu: ogni pagina conteneva un frammento di cultura condensato in un bicchiere.

Venni a sapere che il pepe rosa, celebre per le sue virtù medicinali, non era affatto pepe. Non apparteneva alla famiglia del Piper nigrum, bensì alle bacche del molle, «mòglie», un albero sacro delle Ande, con le sue foglie profumate che ricordano un salice perso in altitudine. Scoprii anche l’ají nero, il peperoncino della Sierra. Fermentato, portava con sé una memoria terrosa, un ponte tra la paprika affumicata, il timo e il pepe nero. Era un sapore stratificato, che non si lasciava afferrare al primo assaggio, una storia che chiede di essere ascoltata fino alla fine.

Seduti sulle rocce, il fiume Urubamba scorreva ai nostri piedi con un mormorio antico.

Sapori di infanzia.

Chiesi a Pedro quale sapore della sua infanzia gli fosse rimasto impresso, e lui rispose con un sorriso di quelli che non hanno fretta di sparire. Parlò del choclo che sua madre gli preparava: mais gigante, bollito con cura, accostato a un formaggio fresco. Con la sua voce calma, dalla cadenza musicale quasi ipnotica, raccontò delle lunghe passeggiate di lui e suo padre per raccogliere erbe destinate al tè.

Parlò della papa a la huancaina – uno dei suoi piatti preferiti – con la riverenza che si riserva solo ai ricordi portatori di nostalgia. C’era in lui una conoscenza quasi sacrale: sapeva dove tutto aveva origine, dove ogni ingrediente affondava le sue radici prima di approdare sulla sua tavola. Descrisse poi il giorno in cui pescò per la prima volta le truchas (le trote) con i fratelli. E infine, raccontò del cuy chactado, il porcellino d’India fritto, preparato dalla nonna per le feste tradizionali.

La sua voce si fece ancora più solenne, come se quel piatto fosse un ponte invisibile verso le radici di tutto.

Pensai a mia nonna e ai suoi carciofi gratinati ripieni di mollica e formaggio, alla sua parmigiana con l’uovo e alla pasta alla norma. A come invecchiando avesse iniziato a somigliare a una bambina, tornando all’essenza originaria che porta ad un legame puro col cibo e le proprie sensazioni. Non le importava più dell’opinione altrui. Pensai all’orto di nonno e alla sua gallina Pasqualina.

Ricambiai il sorriso a Pedro, sul fiume e al tavolo, feci un altro sorso.

©Riproduzione Riservata

Illustrazioni create da Adriana Greco

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Reduce di un decennio nel mondo della ristorazione tra sala e bar; fotografa e content creator, si immerge nel mondo della scrittura come aveva predetto sua madre negli anni ’90. Apre le porte a battente della cucina per sperimentare la pasticceria moderna in una tenuta immersa tra gli ulivi. "Si ma, chi sei? Di cosa ti occupi esattamente?” sente ripetere. Viaggia per il mondo facendo consulenze per nuove aperture di ristoranti, catturando ogni cosa attraverso le lenti di più espressioni artistiche. Forse, abbracciare tutte le parti di sé, accogliere le storie del mondo circostante per dargli voce, l’ha resa oggi, una persona ancora più curiosa e certa solo di cosa non è.

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