Kitchen di Banana Yoshimoto

Riflessione letteraria.

Vorrei iniziare questo racconto ispirato da “Kitchen“, con un paio di domande.

In quanti modi può essere raccontato il cibo? Può un libro parlare del vuoto generato dalla perdita, senza tralasciare le passioni che sembrano accessorie nelle vite spezzate? Certo, se il libro stesso tratta il reale.

Quando perdi qualcuno che ami, il mondo si svuota di significato, le ore non hanno più la loro misura e l’umanità attorno, sfacciata, continua la sua danza inconsapevole. A volte, non hai nemmeno la forza di ricordarti chi sei. In quella privazione, le abitudini prendono il controllo, si muovono al posto tuo avvolgendoti in un abbraccio serafico.

Kitchen di Banana Yoshimoto è un libro che parla di assenza, un delicato inno alla solitudine e alla rinascita, un racconto che profuma di riso caldo e notti silenziose.

Kitchen: la cucina come rifugio.

In una Tokyo crepuscolare, tra strade illuminate da insegne pop e spazi culinari attrezzati per accogliere il dolore, Mikage perde il suo ultimo legame con la famiglia. Orfana di affetti, trova rifugio nella cucina di qualcun altro, spazio sacro dove la desolazione si mescola agli aromi del quotidiano.

Ristorante a Tokyo
Street Food a Tokyo

Accolta da Yūichi e dalla sua vivace madre Eriko, impara che la famiglia è anche quella costruita attraverso legami sfuggenti alla definizione comune. Nel lutto, mentre la maggior parte delle cose perdono d’importanza, l’istinto di sopravvivenza della protagonista si manifesta tra i fornelli, davanti una tazza di tè caldo, su una tavola imbandita.

Cucina di Erko e Yūichi

Lo spazio tra mestoli e stoviglie è per Mikage l’isola felice in cui il tempo non può ferirla, l’occasione per mostrare gratitudine nei confronti delle cose ancora belle. Il cibo è per lei il messaggero dei sentimenti non verbalizzati e della rabbia taciuta. Il dosatore di coraggio per guardarsi allo specchio e accogliere l’affetto del discreto e premuroso Yūichi.

Katsudon.

Quando si ritrova per lavoro nella città termale di Izu, a 150 km da Tokyo, una sera entra sola in una piccola trattoria. È afflitta dalla disperazione di un fallimento antico che proviene da dentro, e sa che per fare ordine deve mangiare. Chiede una ciotola di katsudon, piatto tradizionale che unisce la croccantezza del tonkatsu (cotoletta di maiale impanata e fritta), la morbidezza dell’uovo e il conforto del riso bollente (don, da donburi significa “ciotola di riso”). La parola “katsu” richiama il verbo 勝つ (katsu), e significa “vincere”: in Giappone, è il piatto dei combattenti, degli studenti prima di un esame, di chiunque affronti una sfida. Per Mikage è un atto di resistenza.

Città di Izu

Nell’attesa del piatto, in un gesto automatico, afferra la cornetta del telefono e chiama Yūichi. Sente la sua voce, ride con lui, scopre che non ha mangiato. Quando riattacca, il katsudon è già davanti a lei: fumante, profumato, perfetto. Il primo boccone la attraversa come un’onda calda, smuove le acque ferme dentro di lei. Il sapore la riconcilia con il presente e senza pensarci, esclama al proprietario la sua meraviglia. Si accorge di non voler tenere per sé quell’estasi, e chiede un’altra porzione da portar via.

Quando sale sul taxi con la scatola scottante tra le mani, l’autrice Yoshimoto non permette alla protagonista di specificare la destinazione, lasciando la città nell’anonimato di una sola lettera: “I…”. Forse non è un luogo sulla mappa, forse, è una direzione interiore.

Nonostante il distacco emotivo trascinatosi per tutto il racconto, ancora una volta e più delle altre volte, Mikage riconosce i suoi sentimenti solo in relazione con il cibo. Il katsudon è un messaggio, un dono. È il cuore che, finalmente, trova il coraggio di offrire amore a chi c’è stato affinché possa restare, se vuole.

Ho iniziato questo racconto con un paio di domande e l’ho terminato con parecchie risposte, l’ultima è questa. 

Il cibo può essere raccontato perfino quando la morte di chi ami si porta via il significato delle cose, la potenza delle parole è in grado di mimare il sapore di una tempura, e di evocare lo stato d’animo di una persona che non prova più gusto per niente.

Banana Yoshimoto Review.

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© FOTO E ILLUSTRAZIONI DI ADRIANA GRECO

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Reduce di un decennio nel mondo della ristorazione tra sala e bar; fotografa e content creator, si immerge nel mondo della scrittura come aveva predetto sua madre negli anni ’90. Apre le porte a battente della cucina per sperimentare la pasticceria moderna in una tenuta immersa tra gli ulivi. "Si ma, chi sei? Di cosa ti occupi esattamente?” sente ripetere. Viaggia per il mondo facendo consulenze per nuove aperture di ristoranti, catturando ogni cosa attraverso le lenti di più espressioni artistiche. Forse, abbracciare tutte le parti di sé, accogliere le storie del mondo circostante per dargli voce, l’ha resa oggi, una persona ancora più curiosa e certa solo di cosa non è.

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