Quella che segue è una fiaba, inventata sulla base delle leggende tramandate nella zona del Monte Cavallo, sulle Prealpi, che racconta la tradizione della produzione del formaggio friulano.
In Friuli Venezia Giulia, infatti, non mancano i prodotti tipici come il Cuc, considerato il formaggio per antonomasia, oppure il Formaggio salato della Carnia, che viene conservato in salamoia per la maturazione e ancora la Strica, che vuol dire striscia, ed è realizzato con le striscioline di formaggio che avanzano dalla lavorazione.
Tanti tanti anni fa, quando il Friuli era sotto il dominio di Venezia, i popoli che vivevano ai piedi del Monte Raut stentavano a sopravvivere. In quelle zone montuose era difficile avere campi che dessero buoni raccolti e così quasi tutte le famiglie non possedevano nulla se non la modesta casa in cui vivevano.
Un giorno gli abitanti di Navarons, Frisanco, Poffabro e Casasola assieme agli abitanti di Tramonti di Sopra, Tramonti di Sotto ed Andreis si riunirono in consiglio, disperati e preoccupati per l’inverno imminente, e decisero di scrivere al Doge perché li aiutasse a risollevarsi dall’estrema povertà in cui erano costretti a vivere.
“Serenissimo – supplicarono -, noi poveri Vostri sudditi, abitanti delle montagne poste ai confini della Carnia, fatichiamo a sfamare le nostre famiglie. Nelle nostre zone non può crescere biada e così ci cibiamo delle poche erbe ed ortaggi che riusciamo a coltivare e il nostro unico mestiere è quello di raccogliere la legna dei faggi e degli abeti dei nostri boschi. Vi preghiamo perciò con tutto il cuore di donarci il Vostro aiuto”.
Attesero a lungo che i messi del Doge portassero notizie, che qualcuno venisse loro in soccorso, ma aspettarono invano. Ancora per molti anni continuarono a recarsi nei boschi a tagliare la legna e poi a trasportarla sulle spalle per chilometri e chilometri lungo gli stretti e impervi sentieri di montagna, piegati dalla fatica.
Alcuni decenni più tardi scrissero ancora:
“Serenissimo,
non avendo ottenuto risposta né sostegno alcuni anni or sono, noi abitanti delle zone montuose Vi preghiamo e supplichiamo nuovamente di provvedere ai nostri bisogni. Non possediamo nulla se non le nostre anguste e scomode abitazioni. Viviamo tra sassi sterili; le nostre colture sono impedite e rovinate dalla neve e dalle brine e la scarsa biada che riusciamo a coltivare non ci basta neppure per due mesi l’anno. Nelle nostre stalle c’è scarsità di fieno e spesso per scaldarci portiamo in casa le poche pecore e mucche che abbiamo”.
Ancora una volta nessuno li aiutò, le loro condizioni peggioravano sempre di più, la loro miseria aumentava e a quegli uomini non rimase che una soluzione, emigrare in altre terre. Con le loro famiglie, molti partirono per luoghi lontani, alla ricerca, se non di fortuna, almeno di una vita migliore.
Più passava il tempo e più le famiglie che abbandonavano la loro terra diventavano numerose e, così, a poco a poco i villaggi ai piedi del Monte Raut e dei monti vicini si spopolarono.
“Ma dove sono finiti tutti gli uomini che venivano nei nostri boschi a tagliare la legna?” cominciarono a chiedersi i folletti della montagna.
I folletti, infatti, che vivevano nei tronchi degli alberi, si erano affezionati a quei tagliaboschi. Si divertivano spesso a fare loro degli scherzi: muovevano, stando ben nascosti, i rami degli alberi e dei cespugli, in modo che le foglie solleticassero i boscaioli facendogli cadere dalle spalle la legna che trasportavano, oppure costruivano innocue trappole intrecciando a terra tralci e frasche per farli inciampare, oppure ancora li spaventavano la sera, al calar del sole, emettendo versi in modo pauroso e sogghignavano poi nel vederli accelerare il passo…
I folletti hanno lo spirito dei bambini: amano attirare l’attenzione e non perdono occasione per giocare e divertirsi; ma sono buoni e quelli del Monte Raut erano pronti a proteggere i visitatori umani dalle streghe cattive e facevano trovare loro dei doni: ceste piene di funghi, cataste di legna già tagliata o bellissimi fiori per le loro mogli.
Gli uomini sapevano di essere osservati da quei piccoli abitanti del bosco, sentivano la loro presenza, ma non cercavano di vederli o di parlare con loro; si era stabilito un muto accordo: i montanari permettevano ai folletti di fargli qualche scherzo e in questo modo li divertivano e in cambio ricevevano da loro difesa dai pericoli e dagli esseri maligni e preziosi regali.
Così, senza i loro amici boscaioli, i folletti del Monte Raut divennero tristi.
“Non sono più piacevoli e festose le nostre giornate – commentavano con voce mesta -; non possiamo ritmare le nostre passeggiate al canto degli uomini, non c’è nessuno da burlare; i boschi sembrano vuoti e privi di vita e non dobbiamo neppure stare attenti a non essere visti e spostarci da un luogo all’altro come giocassimo a nascondino”.
Assieme a loro anche gli gnomi, gli elfi, gli scoiattoli, i cerbiatti e tutti gli altri animali del bosco persero la gioia. Perfino gli alberi e le piante parevano meno rigogliosi, le loro foglie ingiallivano e cadevano, i loro rami pendevano verso il basso e non si rizzavano più alla ricerca del calore e della luce del sole.
Lo Spirito dei boschi, che abitava tra le piramidi del Monte Cavallo, era molto preoccupato: “Il mio popolo si sta abbandonando alla tristezza e presto persino il vento perderà la sua allegra forza e smetterà di cantare e di far vibrare in dolci suoni le piume degli uccelli”.
Radunò tutti gli gnomi del suo regno sotto una grande quercia e disse loro:
“Gnomi, voi siete esseri speciali, dotati di una sapienza straordinaria. Sapete prevedere il futuro, conoscete tutte le proprietà magiche delle erbe e dei metalli, potete curare le malattie e coltivare pietre preziose. Capite e parlate il linguaggio degli animali, sapete allevare capre e sfornare biscotti.
Voi, non dimenticatelo, siete per gli uomini come degli angeli custodi. Ed ora solo voi potete andare loro in aiuto. Sono rimasti pochi abitanti sulle nostre montagne. Posseggono baite sulle alte valli, case per i pascoli che chiamano malghe. Apparite loro in sogno e mostrate che lì, grazie al latte delle loro capre e vacche, possono praticare un’arte speciale. Insegnategli a trasformare quel latte in formaggio, un formaggio a cui, con un pizzico di magia, darete un sapore unico ed inimitabile”.
Gli gnomi entrarono nei sogni degli uomini quella stessa notte. Subito gli abitanti delle montagne si recarono nelle loro malghe e lì, di notte, per mesi e mesi, i piccoli ometti comparivano ai loro occhi increduli e vestivano i panni di diligenti insegnanti nell’arte della trasformazione del latte.
Pentoloni enormi bollivano nei camini. Al momento opportuno al denso liquido bianco veniva aggiunto il caglio, e il latte si trasformava in cagliata. Poi la cagliata veniva tagliata…
Gli uomini impararono prima a fare il burro, poi la ricotta e infine il formaggio, un formaggio speciale perché gli gnomi donarono loro un ingrediente con poteri straordinari, una polverina incantata, trasparente alla vista, che rendeva quella pasta di latte gustosa come nessun’altra.
Presto divennero abili, il formaggio era sempre più saporito e da una montagna all’altra, da un bosco all’altro, la voce della bontà di quel prodotto raggiunse anche le terre lontane.
Molti di coloro che erano partiti iniziarono a tornare, nuovi uomini e donne popolarono valli e pinete e i folletti poterono ricominciare a proteggere e burlare i loro amici. Il vento riprese a soffiare allegramente, il sole a splendere più potente, gli alberi e le piante a crescere rigogliose, gli animali a correre e saltare senza sosta, sotto il sorriso vigile, dal Cimon del Cavallo, dello Spirito dei boschi.
Quello speciale formaggio era il cibo che dava forza e sostentamento. Gli uomini si recavano nei mercati delle città vicine per venderlo; nessuno sapeva cosa potesse conferirgli un gusto ed una consistenza così unici; ancora oggi nessuno lo sa, è il segreto del “formaggio degli gnomi”.
Leggenda tratta dal libro “Fiabe e leggende del Monte Cavallo” di Francesca Orlando, Ed. Santi Quaranta, Treviso, 2004.
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